- Cosa fai domenica sera, vai a soffrire a San Siro?
È uno dei tanti colleghi tifosi dell’altra sponda, prova a tampinarlo, ridacchia sotto i baffi, è sicuro di vincere. Lui, seduto alla scrivania, lo guarda di sotto in su, dopo averlo mentalmente insultato, gli risponde con finta gentilezza
- No, non penso, non ho il biglietto, giochiamo fuori casa.
Non ha voglia di parlare di derby.
La Beneamata è in difficoltà, a sole poche giornate dall’inizio del campionato ha cambiato l’allenatore, invece loro, “I Cugini”, hanno il vento in poppa, sono avanti di diversi punti. Per un mezzo tifoso come lui, è una mezza tragedia.
- Vai spesso a San Siro? - gli chiede l’altro come a voler rigirare il coltello nella piaga.
Si vede che gongola, ha voglia di gioire della preoccupazione che gli legge in faccia. È di questi turbamenti del nemico che si nutre un tifoso.
- No! - Risponde lui - ci vado qualche volta, non sono un appassionato, - sta mentendo - mi piace andare a San Siro perché, dal vivo, il calcio mi provoca emozioni indefinibili, per questo non lo guardo mai in televisione.
Quelle che ha appena definito “emozioni indefinibili” se le trascina dai tempi in cui studiava.
Costretto in qualche modo a passare il tempo sui libri, per rilassarsi aveva seguito il consiglio di un amico: andare la domenica pomeriggio alle quindici a San Siro, lì ci si poteva “rilassare”. Scoprì ben presto che, a S. Siro, raramente si rilassava, qualche volta esultava, spesso, troppo spesso, soffriva.
La scelta della Beneamata era stata quasi casuale.
Molti anni prima aveva seguito anche se blandamente i fasti delle vittorie in Coppa Campioni, quasi senza accorgersene il tifo l’aveva contagiato, proprio come una malattia. L’altra squadra della città, quella innominabile di Torino erano via via diventate le odiate nemiche.
Da allora, dal tifo, pur tra alti e bassi, non era mai più guarito, anche se non frequentava lo stadio, non lo seguiva in televisione o in altro modo.
Poi, nei primi anni del nuovo millennio, qualche volta aveva ripreso ad andare al Meazza per qualche sporadica partita. La malattia, fino ad allora assopita, si era improvvisamente riacutizzata. In questo contesto, a complicare ancor di più il decorso del malanno in atto, successe un fatto che avrebbe dato una svolta definitiva all’acciacco, facendolo diventare patologia cronica.
In occasione di un compleanno, che per lui cade ad agosto, i figli e la compagna, che avevano capito la natura incurabile del male che lo stava consumando, gli regalarono nientemeno che un abbonamento per il Campionato; equivalse a donare un cappio a chi voleva impiccarsi.
Secondo anello verde, la famigerata Curva Nord.
È noto che lì non ci vai per vedere la partita, lì, la partita, non la puoi vedere, a partire da ore prima del calcio d’inizio su quegli spalti la partita non è più una cosa tua, personale. In Curva Nord la partita non la vedi, ma di sicuro la senti insieme, la vivi insieme, la fumi insieme, la bevi insieme, la soffri e la godi insieme a migliaia d’altri malati, la cui malattia ha raggiunto lo stadio terminale. In quella bolgia infernale, che però chi vi è immerso pensa essere un eden, in cui il più vecchio non ha età, il più normale urla frasi che non si riesce a immaginare come una mente umana possa riuscire a partorire, e poi a dire, in cui il più calmo si agita, spinge, si butta di qui e di là per almeno tre o quattro ore senza mai posare il culo sul seggiolino. Lì in mezzo, dove la sua tessera di abbonato gli dava diritto a un posticino su quei gradoni di cemento, resistette due o forse tre partite. Poi, senza rimpianti, si dovette arrendere.
Alla sua età non poteva reggere quel ritmo.
Stare in piedi due o più ore, avvolto da un fracasso assordante, imparagonabile a qualsiasi altro raduno, dover immaginare la partita intravedendo qua e là i ventidue ragazzotti che si rincorrono sul prato verde, trovarsi a presagire cosa fosse successo non per averlo visto ma interpretando l’urlo che lo aveva accompagnato. Essere costretto a fumare non solo sigarette dopo che cercava da anni di perdere quel vizio. Sentirsi offrire da bere di tutto, dovervi rinunciare, per non perdere il controllo della situazione. Furono questi i motivi che gli consigliarono, per il bene della sua salute fisica e mentale, di chiedere di essere spostato al piano di sotto al primo anello verde.
A ben vedere, anche quel nuovo posto non si poteva paragonare a una poltrona della galleria della Scala.
Occorre non scordare che, quelli seduti su quei gradoni di cemento in quegli striminziti seggiolini colorati, avventori abituali o saltuari, sono tutti comunque malati. Del resto allo stadio non esiste un angolo dove si possa trovare qualcuno sano. Certo, il livello di gravità della malattia sembra differente da posto a posto, da individuo a individuo, ma in realtà il morbo è lo stesso e le sue rappresentazioni hanno un grado d’imprevedibilità tipico di quel tipo di malattia.
Un malato comincia a soffrire già nei giorni precedenti un derby.
I sintomi si acuiscono già dal mattino del giorno stesso della partita, con manifestazioni di palese inquietudine, tendenza al nervosismo. Col passare del tempo, poi, tendono a peggiorare. Dal primo pomeriggio fino a qualche ora dal fischio d’inizio l’ansia, l’inquietudine, la puoi misurare, infine essa diventa pura angoscia, agitazione incontrollata, quando le squadre entrano in campo.
Il malato cronico, provato da anni di malattia, consapevole del fatto che non esiste in natura un farmaco per la cura, o anche solo qualcosa in grado almeno di alleviare quell’indicibile sofferenza, nel tempo ha sviluppato antidoti personali.
Servono ad allentare il tormento e, molto importante, a fabbricarsi una speranza in attesa del temuto verdetto. Sono piccoli innocenti atti che il malato compie, gesti e atteggiamenti che si sono verificati per un derby vinto alla grande e che l’infermo si sforza, s’impone di ripetere per esorcizzare l’avvenimento.
Lui ha passato il tempo di avvicinamento al derby con i sintomi e le reazioni sopra descritti.
In quel tardo pomeriggio di una domenica di fine novembre è in uno stato d’animo indicibile e non sa ancora come affrontare la serata, che si annuncia molto dura. Non ha il biglietto e quindi non può andare a San Siro. Almeno sul posto, di solito la tensione si diluisce con gli altri suoi compagni di fede. Non guarda mai la televisione, non ne ha neanche la possibilità. Pensa di trovare qualche sito che abusivamente faccia vedere la partita, ma desiste subito; troppo pericoloso, è una strada che non ha ancora percorso, non sa se porti a qualcosa buono, meglio non rischiare con un derby in ballo, potrebbe fare esperimenti con una partita più semplice, come se con la Beneamata esistessero partite semplici. Potrebbe ascoltarla alla radio, ma questa è una via che ultimamente è meglio non percorrere. Nelle ultime tre partite sentite alla radio, due sconfitte e un pareggio con una provinciale. Potrebbe andare, come fa tutte le sere, a letto a leggere, ma questo è un derby, la febbre della malattia si fa sentire, non riuscirebbe a concentrarsi, leggerebbe una pagina decine di volte, stando con l’orecchio attento a sentire le reazioni del condominio, cercando di indovinare le esaltazioni di amici o nemici; una sofferenza.
Verso le sette ha preso una decisione, annuncia alla compagna: - Cosa ne dici se andassi a San Siro? Questa sera c’è il derby.
Lei risponde con un sorriso che la dice lunga su cosa ne pensi.
- Pensavo che fossi già partito mezz’ora fa, non sei in ritardo?
Lui non si fa coinvolgere in quella bassa ironia, ha preso una decisione, costi quel che costi. Ci andrà in bici, conscio della cruda verità statistica: all’ultimo derby che lui ha visto a San Siro e che la Beneamata ha vinto c’era andato proprio in bici.
San Siro è dall’altra parte della città, lui usa quei chilometri di faticoso pedalare per sgombrare la mente.
Il percorso lo conosce a memoria, non può inventarsene un altro, sarebbe troppo pericoloso sfidare la sorte. Per non lascare poi nulla d’intentato quella sera, visto che è in bici, ha deciso di attuare un altro accorgimento scaramantico che ha dato prova di buoni risultati. Una volta uscito dal cancello di casa fino ai cancelli dello stadio cercherà di non appoggiare mai i piedi per terra. È un esercizio non facilissimo, tenuto conto delle decine e decine di semafori rossi avversi che fatalmente incontrerà e che lo costringeranno a un surplace da vero pistard. L’accorgimento scaramantico non prevede di potersi appoggiare con la mano a qualcosa per strada, come il palo del semaforo, perché sarebbe troppo facile.
Dopo quasi un’ora, un po’ accaldato nonostante il freddo, è davanti ai cancelli dello stadio, lega la bici al posto suo, scaramantico: secondo palo della luce dopo la biglietteria nord.
Il fermento è indescrivibile, da dentro già arrivano urla altissime e manca ancora quasi un’ora all’inizio della lotta.
- Ne hanno di fiato i Cugini - si dice, pensando che deve risolvere il problema dei biglietti.
Si è prefisso un budget che per etica e dignità cercherà di non superare, poche decine di euro, quale che sia la febbre che gli farà crescere la malattia. Si guarda intorno, non ci sono neanche i soliti bagarini, che oramai conosce, evidentemente di biglietti non ce ne sono proprio più. Ne scorge uno:
- 150 euro, un terzo anello - gli chiede, senza neanche pensare per un solo momento se lui abbia la faccia di uno che potrebbe scucire quella cifra per un terzo anello. Lui neanche per la tribuna d’onore per un derby scucirebbe una cifra simile.
Comincia a pensare che, questa volta, non ce la farà a entrare.
Si dirige verso il “Baretto”, a due passi, noto covo di malati cronici della Beneamata. Solo per andare al cesso, non spera certo di trovarvi un tagliando. Mentre è fermo in una chilometrica coda che si snoda partendo dalla malandata e puzzolente porta del cesso per arrivare ben fuori dall’entrata del locale, si guarda intorno cercando di capire se, tra tutti gli avventori, ce ne sia uno con i biglietti in mano.
Non ce ne sono, hanno tutti le mani impegnate ma con bicchieroni di birra e panini con dentro di tutto.
Eppure loro sono lì e probabilmente poi entreranno, quindi qualche biglietto dovrebbero pure averlo. Poi nota che nell’angolo in fianco al banco si apre un pertugio, dove, dietro un piccolo tavolo, è seduta una ragazza carina, tutta piena di anelli, con ciuffi di capelli arancio che donano luce a un viso sempre sorridente. Da lontano non vede bene ma scrutando gli sembra di notare che abbia davanti un grosso libro, forse un registro. Quando si avvicina qualche ragazzo, sembrano parlottare e poi lei gli consegna qualcosa e annota anche qualcosa sul librone.
Quello che lei passa ai giovani potrebbero essere biglietti, si dice speranzoso.
Rivolto a due ragazzi che ha davanti, chiede lumi in merito, loro gli confermano che quelli sono i biglietti prenotati per i supporter della squadra: la tifoseria ufficiale, quelli del secondo anello verde, gli ultras. In un primo momento non ci pensa nemmeno a chiedere qualunque cosa, ma la coda è lunga, la prostata non consiglia di abbandonare la posizione conquistata, pena problemi gravi nel cercare un altro cesso, allora si dice che potrebbe anche provare, tanto che cos’ha da perdere.
Arrivato finalmente all’uscio profumato, dopo aver accontentato la sua parte bassa, decide di chiedere notizie.
Cambia quindi fila, questa, però, è corta, dopo dieci minuti, sfoggiando un sorriso probabilmente fuori luogo, fa la sua impropria domanda a quel viso sorridente che lo guarda da dietro il tavolino.
- Qualche biglietto? Ce ne sono ancora pochi, sono ragazzi che, per qualche motivo, non sono ancora arrivati - risponde lei candidamene, come se nulla fosse. - E allora? - chiede lui a quel punto speranzoso. - Allora, se tra mezz’ora non si sono presentati, lei li può distribuire, però è difficile, di solito, prima o poi, arrivano tutti.
- C’è una “lista di attesa” ? - chiede lui.
Lei lo guarda quasi con tenerezza.
- No, signore - facendolo sentire, con domande del genere, vecchio, fuori posto e un po’ coglione. - Torni tra un quarto d’ora, se ho un biglietto glielo do volentieri.
Per festeggiare la lontana possibilità lui si dirige deciso al banco, una birretta se l’è meritata.
Quando sta per cavarsi il portafoglio dalla giacca a vento, gli viene in mente che bere la birra non fa parte degli atti propiziatori. Ha voglia di birra, rimane incerto per qualche minuto con il portafoglio in mano. - Magari posso sfatare una credenza - si dice. Gli costa rinunciare, prevale la prudenza, giocarsi un derby per una birra sarebbe grave, anche se tutti quelli intorno a lui di birre ne bevono diverse e lui si dice che quel rito propiziatorio alla fine sarebbe meglio sfatarlo.
Non sa cosa fare e per far passare il tempo va a gironzolare in mezzo alla moltitudine che si accalca ai cancelli.
Tra quelli che entrano, ogni tanto si alzano cori; sono in tanti, giocano in casa.
- Oggi gliene diamo tre, - sente dire da un ragazzone alto - li asfaltiamo.
Manca meno di un quarto d’ora all’inizio della partita.
La ressa va scemando e la gente si affretta e bestemmia per i controlli che fermano la coda, rallentano l’entrata. Rassegnato si avvia verso il “Baretto”, non c’è quasi più nessuno, sono tutti entrati, va dritto dalla ragazza, quando lo vede scrolla la testa, - Non me ne sono rimasti, - gli dice - mi spiace.
Lui fa una smorfia, saluta, se ne va verso l’uscita.
- Signore!
Si gira di scatto, speranzoso.
- Le volevo dire che cinque minuti fa c’era un signore che voleva vendere un biglietto, voleva molto di più del suo costo, gli ho detto che non potevo comprarlo, lui era contrariato, se n’è andato arrabbiato, è un signore anziano, aveva una bicicletta di quelle con le ruote piccole.
Il piazzale è quasi sgombro, alcuni arrivano trafelati, altri sembra che non siano lì perché vogliono entrare.
Si dirige un po’ mesto verso il lampione cui ha legato la bici, si cava dallo zaino la chiave del lucchetto, la slega, senza fretta si avvia. In fondo al piazzale vede un vecchio fermo con un piede appoggiato per terra che guarda lo stadio. Il fragore sembra materializzarsi nell’aria, dev’essere iniziata la partita e quello dev’essere il vecchio di cui parlava la ragazza. Lui lo raggiunge e, mentre gli passa piano davanti, applica la vecchia tattica del “tonto”.
- Che casino che fanno quelli là dentro, saranno almeno settantamila!
- Anche di più - risponde lui - e tu perché non sei entrato? - gli chiede.
- Non mi interessa molto, ero in giro da queste parti, e poi non ho il biglietto! - e si avvia deciso.
- Ce l’ho io un biglietto!
Si ferma, quel vecchio vuole fare l’affare, si volta, lo guarda come per capire, gli chiede:
- Se avete un biglietto perché non siete entrato a vedere la partita?
- Non sono un tifoso io, il biglietto è di mio figlio, che è a letto con la febbre a quaranta e la partita la vede alla televisione, abito qui vicino, mi son detto che potevo venderlo piuttosto che buttarlo via.
Da dentro lo stadio, le urla si alzano.
- Perché allora non l’avete venduto?
- Non l’ha voluto nessuno! Lo vuole lei?
Lui fa l’indeciso, ostenta indifferenza, possibile che non avesse trovato un acquirente? Chissà quanto chiedeva? Lascia scorrere attimi eterni.
- Di che anello è? Quale settore? Quanto vuole?
- Centodieci euro - gli butta in faccia il vecchio furbo, forse un bagarino mascherato, improvvisato.
- Centodieci? No, no! Non fa per me, - risponde lui - me ne vado a casa, la partita è già iniziata da un po’.
Inforca la bici, quando il vecchio gli chiede:
- Tu quanto sei disposto a spendere per un derby?
- Non più di quaranta, massimo cinquanta - risponde lui - e poi di che settore è, faccia vedere!
Il vecchio gli mostra il biglietto senza però darglielo in mano, forse teme che lui glielo possa rubare.
- Del secondo anello verde, la bolgia degli ultras, un inferno -. È per quello, si dice, che non l’ha ancora venduto, se poi chiedeva quei soldi…
Non capisce bene se quel vecchio è ingenuo o troppo furbo.
- Le do quarantacinque euro e non se ne parli più.
- Vanno bene! - si sente rispondere.
Con un po’ d’affanno affronta le interminabili rampe di scale facendosi inondare dal clamore assordante.
Finalmente sbuca a una porta di accesso, si trova di fronte a un muro di schiene di gente in piedi che guarda giù in basso il verde prato illuminato. Non gli passa nemmeno un attimo per la testa di poter andare in cerca del posto che dice il biglietto. È finito al confine delle due tifoserie del secondo anello: quella degli ultras della Beneamata curva Nord e quella dei nemici Cugini protetti da una grande grata di ferro. Cerca di avvicinarsi alle spalle voltate che ostruiscono tutto, vuole cercare di guadagnare almeno uno spiraglio verso il basso, verso il campo. Gli ultras stanno giustamente facendo il loro lavoro: tutti in piedi urlano slogan studiati a tavolino muovendo ritmicamente le braccia e il corpo, sembra che tutti stiano fumando, bevendo birra. Uno spettacolo superbo.
Dall’altra parte della grata i colori avversi sono seduti, i loro ultras sembrano più quieti, sono lontani, nella curva opposta, la curva Sud.
La temperatura del tifo sale, alcuni si scagliano contro la grata lanciando invettive contro le madri, le sorelle di tutti quegli altri di là che, anche se con meno veemenza, cominciano a rispondere. Un ultrà che urla aggrappato all’inferriata riceve in faccia uno sputo da un rivale, che si mette inoltre a irriderlo protetto dalla grata. Subito una banda inferocita si scaglia a sputacchiare attraverso le sbarre, andando a inumidire parecchi rivali che non c’entravano nulla e che istintivamente cercano di spostarsi il più lontano possibile, creando caos, urla, invettive.
Lui, pian piano, con massima discrezione, senza irritare nessuno, ha trovato un posto a ridosso della scala protetto da quell’andare e venire di quegli scalmanati e cerca di seguire la partita scrutando giù nel prato i ventidue ragazzotti che si contendono il pallone.
Finora sembra che la Beneamata se la sia cavata, questo fa ben sperare, anche se gli altri sembrano scatenati sorretti dallo stadio amico. Dalla scala arrivano due energumeni, rivolgendosi a quelli che avevano acceso la miccia con lo sputo si mettono a insultarli, a minacciarli di catastrofi, agitando le braccia tra le maglie della grata. È un caos indescrivibile, degli steward addetti all’ordine e alla sicurezza degli spettatori nessuna traccia; del resto è comprensibile, non sarebbe un posto sicuro per loro.
Sta quasi finendo il primo tempo, quando succede la catastrofe.
Sta seguendo con ansia l’azione, i puntini dai colori avversi si muovono in velocità, li vede avanzare, scambiarsi il pallone, senza che qualcuno della Beneamata riesca a intervenire, fino a quando, dopo uno scambio, Suso, maledetto lui, con un tiro teso, basso, angolato perfora la rete; è gol.
Lo stadio esplode, la parte avversa è tutta in piedi a urlare, ad abbracciarsi, a fare sberleffi agli altri, ammutoliti.
Gli ultras che lui ha davanti, tutta la curva Nord, hanno un attimo di smarrimento: la doccia è fredda, gelata. Ma è solo un attimo, però, subito dopo le urla, gli insulti, la rabbia riprendono corpo e vanno a sfogare la loro frustrazione su quella linea di confine delimitata dalla grata. Gli altri ora li sbeffeggiano senza più remore, stanno vincendo e questo dà loro la facoltà di far di tutto per fare aumentare la rabbia dei nemici, tanto sono protetti dalle sbarre.
- Chi non salta interista è!
Urla tutto lo stadio mettendosi a saltare, al punto che si sentono gli spalti dondolare, ma solo i neofiti dello stadio se ne preoccupano. Arriva la fine del primo tempo.
Al fischio dell’arbitro, sembra che tra le parti si sia raggiunto un tacito accordo per una tregua.
Come tra Achei e Troiani, che dopo la battaglia si concedevano una sosta per recuperare e seppellire ognuno i propri morti, sugli spalti quasi silenziosi dopo lo scontro in molti ne approfittano per andare a fare rifornimento di birre, panini e quant’altro in vista della ripresa delle ostilità.
La tregua è stata rispettata da entrambi gli schieramenti, alla ripresa delle ostilità in campo corrisponde quella sugli spalti.
Anche lui lì sul confine deve subire gli sberleffi dagli avversari dall’altra parte della grata. Rode sentirsi dire tutte quelle provocazioni, guardando gli scontri in campo e fuori è terrorizzato al pensiero che, se il nemico segna un altro gol, il derby è finito.
Il gol invece lo fa Candreva, baldo guerriero della fascia destra della Beneamata, e tutta la curva nord esplode.
Lui è investito da un fiume di corpi che si riversa sulla cancellata a urlare ai nemici la propria pazza gioia. Il delirio è condito dalle solite grasse invettive verbali che fanno riferimento al più antico mestiere del mondo professato da tutte le madri, le spose e le sorelle dei tifosi dell’altra fede. Le ingiurie mandano tutti a sedere sul water, augurano luttuosi, atroci destini a loro, alla famiglia, alla squadra, sbeffeggiano gli odiati giocatori. Tutte le belle parole sono condite da gesta inequivocabili con le mani, con il dito medio che va da giù in su.
La sua manifestazione di gioia di fronte a un gol consiste in un’alzata al cielo dei pugni chiusi, atto semplice e conciso.
- Chi non salta milanista è!si alza al cielo, gli spalti tornano a dondolare. Gli altri, da dietro le sbarre, dopo il primo smarrimento dovuto allo sconcerto di aver subito il pareggio, riprendono ben presto vigore.
Non ha ancora finito di gioire, quando gli casca il mondo addosso.
Suso, sempre, ancora lui, il maledetto bravo nemico, ha di nuovo infilato il portiere nerazzurro, sugli spalti si ripropone la recita andata in onda pochi minuti prima, a parti invertite. Questa volta potrebbe essere davvero la fine, manca ancora tanto tempo al termine della partita, ma il colpo al morale è stato letale.
Inizia a seguire la partita quasi isolandosi da quegli scalmanati.
Segue con speranza le azioni della Beneamata, sprona mentalmente i giocatori a correre, a picchiare, a fare qualcosa comunque, in ogni caso. Va in ansia, con il cuore che perde colpi, quando invece sono i nemici ad attaccare. Un nodo gli sale su dal petto e gli serra la gola, la mente è bloccata, impantanata, gli occhi sono incollati sul verde prato e su quelle figure che lo punteggiano. Anche se corrono qua e là come formiche, a lui, a un certo punto, sembrano immobili, è tutto fermo, il gol non arriva. Lo sguardo si alza in continuazione a controllare il grande quadrante nero che domina lo stadio, che indica tante cose, ma ciò che lui vede sono solo il risultato: Milan 2 - Inter 1 e il tempo: 72,04 72,05 72,06… Come sempre, il tempo se ne frega di tutto e tutti, cammina come sa fare solo lui.
Sta sicuramente scorrendo più velocemente del solito, quel maledetto, sempre di più, non c’è più tempo.
Si arriva così al novantesimo, la partita sta finendo, mancano solo i pochissimi secondi di recupero, la Beneamata sta perdendo il derby, un disastro.
Il calcio però è bello proprio per questo, non sai mai cosa può succedere, ti aspetti una cosa e ne succede un’altra, ti dà una delusione, ma può compensarla con una gioia improvvisa.
Quella fredda domenica sera di novembre, con un intero stadio gremito di sostenitori avversi, dopo novanta minuti d’indicibili sofferenze, arriva anche per lui la pazzagioia.
Nell’ultima azione possibile, nell’ultimo nanosecondo della partita, un pallone che sta girando senza una precisa meta nel bel mezzo all’area nemica va a finire sui piedi di Perisic.
Questa volta lui è sicuro che il tempo si sia fermato, gli ottantamila si fermano con lui. Il mondo intero sembra fermarsi. Pensieri di ogni genere si affacciano alla mente di milioni di persone che al mondo stanno seguendo la partita. Miliardi di occhi guardano quel benedetto uomo, con quella sua faccia da ragazzone inglese, anche se è slavo, con il pallone tra i piedi, fermo anche lui, come tutti davanti alla porta del Milan.
Poi il tempo riprende a scorrere, Perisic fa il miracolo, tira, fa gol: pareggio.
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